Se ne parla da tempo ma nessuno fa niente per invertire la rotta: il largo consumo umano di carne sta aggravando il problema della resistenza agli antibiotici, usati in modo massiccio negli allevamenti (e non solo) per rispondere alla grande richiesta di questa tipologia di alimento.
La natura non protegge necessariamente l’uomo: l’evoluzione funziona con meccanismi che, ci piacciano o no, non sono sempre a nostro vantaggio. Così, anche un piccolo ma terribile batterio trova il modo di sopravvivere e, se attaccato dall’esterno, seleziona individui resistenti.
Più gli attacchi sono massicci e feroci, più aumenta la probabilità che colonie di batteri immuni prolifichino, rendendo sempre più inutili gli attacchi. Dunque usare antibiotici anche quando non serve, in modo massiccio e indiscriminato, non fa che selezionare questi eserciti che poi si ritorcono contro di noi alla prima occasione. Decine di studi scientifici lo dimostrano.
Mangiamo valanghe di carne per poi morire di infezioni antibiotico resistenti?
Negli allevamenti gli antibiotici vengono dati a pioggia anche a scopo preventivo per evitare il diffondersi di infezioni tra gli animali destinati al consumo umano di carne e per accelerarne la crescita, soprattutto negli allevamenti intensivi.
E questa “imbottitura” passa anche a noi, sia perché poi mangiamo questa carne farmaco farcita, sia perché molto spesso gli antibiotici usati sono a largo spettro, includendo moltissimi potenziali pericoli per l’uomo. Che però così rischiano di diventare sempre meno curabili.
“L’elevato volume di antibiotici negli animali da produzione alimentare contribuisce allo sviluppo di batteri resistenti agli antimicrobici – scriveva la FAO già nel 2017 – in particolare negli ambienti di produzione animale intensiva. In alcuni Paesi, la quantità totale di antibiotici utilizzati negli animali è 4 volte maggiore di quella utilizzata negli esseri umani. In molte Nazioni la maggior parte degli antibiotici utilizzati negli animali sono per la promozione della crescita e la prevenzione delle malattie, non per il trattamento di animali malati”.
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Mangiamo valanghe di carne per poi morire di infezioni antibiotico resistenti? Purtroppo la strada è questa.
“Questi batteri possono essere trasmessi dagli animali all’uomo tramite il contatto diretto tra animali e esseri umani, o attraverso la catena alimentare e l’ambiente – continua la FAO – Le infezioni resistenti agli antimicrobici negli esseri umani possono causare malattie più lunghe, maggiore frequenza di ospedalizzazione e fallimenti del trattamento che possono provocare la morte. Alcuni tipi di batteri che causano gravi infezioni negli esseri umani hanno già sviluppato resistenza alla maggior parte di tutti i trattamenti disponibili e stiamo esaurendo le opzioni di trattamento per alcuni tipi di infezione. L’OMS raccomanda una riduzione generale dell’uso di antibiotici negli animali da produzione alimentare per preservarne l’efficacia per la medicina umana”.
Qualcosa è forse cambiato dopo questi allarmi?
No, anzi. Gli allevamenti intensivi prolificano e vengono chiusi solo di fronte a infezioni dilaganti a cui seguono forti pressioni ambientaliste, come nel caso dell’allevamento di visoni di Scorzè dove si è diffusa una variante del Covid-19 (questo peraltro destinato nemmeno al mercato alimentare ma alla vendita di pellicce, forse di più discutibile etica).
Purtroppo però sono casi solo sporadici. E, forse ancora più grave, non esistono dati certi sul consumo degli antibiotici negli allevamenti.
“Le stime del consumo globale annuo totale di antimicrobici nella produzione animale variano notevolmente – scrive l’OMS – Ciò è dovuto alla scarsa sorveglianza e raccolta di dati in molti Paesi: solo 42 Nazioni al mondo hanno un sistema per raccogliere dati sull’uso di antimicrobici nel bestiame”.
Cosa si può fare?
È indispensabile ridurre drasticamente l’uso degli antibiotici.
L’OMS e la FAO suggeriscono molte opzioni se proprio non vogliamo rinunciare alla carne:
- applicare buone pratiche di allevamento durante la manipolazione degli animali, negli stabilimenti di produzione animale e durante il trasporto degli individui;
- migliorare il benessere degli animali (ad esempio garantire una buona qualità di approvvigionamento di aria e acqua, tassi di ventilazione adeguati e allocazione dello spazio) durante tutte le fasi, inclusi produzione, trasporto e macellazione;
- utilizzare animali di razze adattate localmente più resistenti alle malattie e allo stress o animali allevati per la resistenza alle malattie (gli animali resistenti richiederanno un numero inferiore di trattamenti con antimicrobici);
- garantire una buona igiene, misure di biosicurezza e condizioni generali negli allevamenti per prevenire la necessità di farmaci in primo luogo. Se l’ambiente e le condizioni di produzione e trasporto degli animali vengono migliorati, ad esempio riducendo la densità e lo stress degli stock o aumentando l’igiene e introducendo tecniche di controllo delle malattie, l’effettiva necessità di promotori della crescita può essere eliminata o diminuita;
- applicare rigorose misure di controllo delle malattie (ad es. vaccinazione);
- utilizzare ingredienti / additivi per mangimi che migliorano l’efficienza della conversione del mangime per sostituire gli antibiotici come promotori della crescita (ad esempio enzimi nel mangime, prodotti di esclusione competitiva, probiotici, prebiotici, acidificanti, estratti vegetali, neutraceutici, oli essenziali, lievito e molti altri);
- evitare ingredienti per mangimi con proprietà antinutrizionali (come lectine e inibitori della proteasi);
- applicare buone pratiche per la gestione dei rifiuti, concentrandosi sulla produzione primaria in catene del valore specifiche e sottolineando le azioni pratiche che possono essere intraprese, in modo da ridurre la necessità di antimicrobici e controllare la dispersione di antimicrobici e microbi resistenti nell’ambiente.
Ma se chiudessimo gli allevamenti intensivi per sempre invece? Non rinunceremmo comunque del tutto alla carne, ne ridurremmo forse di molto il consumo ma ne guadagneremmo in salute di sicuro.
Fonti di riferimento: FAO / OMS
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