A seguito del colpo di stato dell’esercito del Myanmar, avvenuto lo scorso 1° febbraio, uno dei primi provvedimenti è stato il blocco di internet e l’interruzione delle comunicazioni del paese con l’esterno, con ripercussioni negative sull’integrità del paese e, in particolare, sulla sua economia.
A causa della turbolenta situazione politica e della conseguente deriva autoritaria in atto, molte lavoratrici delle fabbriche tessili birmane, con l’appoggio dei rispettivi sindacati di settore, hanno deciso di indire una serie di scioperi e di unirsi alle grandi manifestazioni di protesta che da oltre un mese chiedono la fine della dittatura militare, nonostante la dura repressione e le ripetute violenze compiute delle autorità.
È in questo contesto che è opportuno interpretare lo sciopero e le relative manifestazioni dello scorso 13 marzo, che tra i loro protagonisti hanno visto le lavoratrici birmane del settore tessile. Quest’ultime non accettano che le multinazionali per cui lavorano – H&M, Primark, Inditex (la società del marchio Zara) e l’italiana OVS – abbiano voltato le spalle alle lavoratrici che scioperano e manifestano per difendere il futuro democratico del proprio paese e chiedono uno stop ai licenziamenti dei lavoratori scioperanti.
Altre importanti multinazionali straniere che operano nel paese sono le britanniche Primark e Next e la giapponese Uniqlo. I prodotti tessili birmani sono destinati perlopiù ai mercati europeo, giapponese e statunitense.
Lo sciopero (negato) delle lavoratrici del fast-fashion
Nel Sudest asiatico, Myanmar è uno maggiori produttori ed esportatori dei capi di abbigliamento dei maggiori marchi internazionali del fast fashion, un tipo di moda economica dietro la quale si celano meccanismi di sfruttamento di manodopera a basso costo e violazioni dei diritti delle lavoratrici (che rappresentano il 90% del personale) e dei lavoratori, circa 700mila in totale.
Dal 2016 il settore tessile è in espansione nel Myanmar. Nel 2018, il 31% delle merci esportate dal paese era costituito da capi di abbigliamento. Nel 2019, il settore ha fatto profitti per 5 miliardi di dollari. La maggior parte dei dipendenti non sono sindacalizzati ma le associazioni dei lavoratori stanno assumendo crescente rilevanza al punto da favorire l’introduzione del salario minimo nel 2015.
Le multinazionali non si schierano e “si sfilano”
A fine febbraio veniva indetto uno sciopero generale, a seguito del quale la polizia birmana aveva emesso dei mandati di arresto per i capi dei sindacati di vari settori, tra cui il tessile. Le lavoratrici del fast fashion avevano partecipato ai numerosi sit-in organizzati di fronte alle fabbriche. A H&M, Inditex e altre aziende veniva chiesto a gran voce di astenersi dal licenziare chi scioperava e di schierarsi politicamente a sostegno delle istanze democratiche presenti nel paese in rivolta.
Il 4 marzo, la Federazione generale dei lavoratori del Myanmar (FGWM) ha scritto una lettera alle grandi multinazionali straniere dell’abbigliamento che usano fornitori locali, esprimendo il proprio dissenso nei confronti dei licenziamenti, delle sanzioni (riduzioni salariali) e dei tentativi di dissuadere i lavoratori dall’adesione al movimento di protesta nazionale pro-democrazia.
In questa difficile fase, la comunità internazionale potrebbe reintrodurre sanzioni sulle merci prodotte in Myanmar. Nel frattempo, ad aggravare il tragico quadro, le multinazionali del settore tessile, tra cui H&M, OVS e Benetton, si sono già mosse per interrompere gli ordini ai fornitori birmani e fare affari altrove. La prima è stata H&M, che dall’8 marzo scorso ha reciso i legami con i suoi 45 fornitori del Myanmar.
Sorprende il fatto che lo scorso 19 febbraio i firmatari di Action, Collaboration, Transformation (ACT), un accordo tra sindacati e multinazionali dell’abbigliamento per permettere ai lavoratori di contrattare stipendi adeguati, abbiano diffuso un comunicato in cui esprimevano attenzione e solidarietà per i manifestanti che stavano lottando per ripristinare la democrazia nel Myanmar. H&M, Inditex e Primark figurano proprio tra i membri di ACT.
In questo ennesimo caso, il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di riunirsi e di manifestare e la libertà d’espressione sono stati apertamente violati, nella quasi totale indifferenza internazionale.
Fonti: The New York Times/Quartz
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