Due nuovi studi, ancora però da sottoporre a revisione paritaria, non hanno trovato prove a sostegno delle affermazioni di ricerche precedenti che ritengono che un’integrazione di vitamina D possa in qualche modo proteggere dal coronavirus.
Durante questo anno di pandemia si è parlato più volte del possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione ma anche nel vero e proprio trattamento del Covid-19. La carenza di questa sostanza, infatti, potrebbe essere collegata a casi più gravi della malattia.
C’è ad esempio lo studio dell’’Università di Torino che sostiene il possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da Covid-19. Uno strumento considerato utile a ridurre i fattori di rischio, ovviamente in aggiunta a tutte le altre fondamentali misure anti contagio.
Per capire meglio la questione e a che punto è la scienza sul legame tra vitamina D e Covid, abbiamo anche intervistato il Professor Giovanni Carlo Isaia, Geriatra e Presidente dell’Accademia di Medicina di Torino.
Ora però due nuove ricerche sembrano smentire le ipotesi precedenti e smorzano un po’ l’entusiasmo di chi ritiene che la vitamina D possa ridurre la suscettibilità e la gravità del Covid-19.
Si tratta di due studi, ancora da sottoporre a revisione paritaria, che hanno esaminato il legame tra i livelli di vitamina D e il Covid-19. Entrambi sono giunti alla stessa conclusione: mancano prove di un legame diretto tra esiti della malattia e carenza di vitamina D.
Il primo studio ha utilizzato un database che raccoglieva i dati di centinaia di migliaia di persone, andando ad esaminare e studiare la situazione di coloro che possedevano determinati marcatori genetici che li rendevano predisposti a carenze di vitamina D, una situazione che non è influenzata da fattori come l’età e altre condizioni sottostanti. I risultati hanno mostrato che non vi sono prove del fatto che gli integratori di questa vitamina proteggano contro il Covid.
Un altro studio ha confrontato la carenza di vitamina D in 24 paesi europei con i dati sulle infezioni da Covid, sul recupero dalla malattia e sulla mortalità. L’autore principale, il dottor Michael Chourdakis, dell’Aristotle University, in Grecia, ha affermato che l’analisi ha evitato i limiti metodologici degli studi precedenti utilizzando solo dati recenti sulla vitamina D e non ha incluso solo sottoinsiemi della popolazione, ad esempio le persone in case di cura.
Inoltre, invece di utilizzare i livelli medi di vitamina D, che possono essere distorti da alcune parti di popolazione che ha concentrazioni molto alte o molto basse, hanno esaminato specificamente i livelli di carenza.
Anche in questo caso i dati non hanno mostrato alcuna correlazione significativa tra vitamina D e infezioni da Covid, guarigione o mortalità.
Insomma, a detta di questi studi, le prove della correlazione tra vitamina D e Covid, almeno fin’ora, sono solo circostanziali. Alcuni ricercatori sostengono che non vi siano abbastanza ricerche scientifiche da favorire una politica di somministrazione di integratori all’intera popolazione (cosa che in realtà è stata fatta ad esempio nel Regno Unito).
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Sono comunque ancora in corso studi randomizzati controllati per rispondere in modo definitivo alla domanda che tutti ci facciamo: la vitamina D gioca davvero un ruolo diretto nelle infezioni da Sars-Cov2?
“Quello che ci manca al momento è davvero un processo definitivo che dimostri un rapporto di causa ed effetto”, ha dichiarato Adrian Martineau, professore di infezione respiratoria e immunità alla Queen Mary University di Londra, che sta conducendo uno studio del genere.
Dopo un anno dall’inizio della pandemia, non vi sono ancora certezze in merito al ruolo della vitamina D in relazione al Covid-19. Gli esperti sembrano essere ancora divisi.
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Fonti: Medrxiv / The Guardian
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